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domenica 18 gennaio 2015

"Penso che il mio uomo voglia uccidermi..." - la recensione di "Gone Girl"

Concluse le esperienze di una blanda produzione arraffa-Oscar ("The curious case of Benjamin Button"), del legal-drama su Zuckerberg e compagni ("The social network") e del suo più recente lavoro in ordine cronologico, un remake americano basato sul best-seller svedese di Stieg Larsson ("The girl with the dragon tattoo", che lascia il tempo che trova), David Fincher ritorna con la sua ultima fatica: "Gone Girl", un "bloody drama" di 149 minuti che definisce senza ombra di dubbio il nuovo apice della sua carriera cinematografica. Immergendo gli spettatori nel mondo di una provincia americana asettica e tinteggiata con i freddi toni dell'indifferenza, Ben Affleck e Rosamund Pike (i protagonisti della storia) ci accompagnano attraverso gli sviluppi di un matrimonio che in realtà nasconde molto più di ciò che mostra.
Il poster del film.
Benvenuti a North Carthage, Missouri
Kevin Dunne e sua moglie Amy Elliot, da poco sposati, decidono di trasferirsi in una cittadina appena fuori St. Louis, nel Missouri. Il loro idillio, tuttavia, è subito messo alla prova dalla crisi economica e da tragedie familiari, eventi che culminano con la misteriosa scomparsa di Amy, la mattina del 5 luglio; dietro la donna non ci sono tracce da seguire, salvo alcuni "indizi" per la tradizionale caccia al tesoro che lei era solita organizzare in occasione dei suoi anniversari di matrimonio. Le ricerche della polizia però si addentreranno lentamente in un mondo algido e colmo di segreti, svelando un quadro inaspettato.
Ciò che più colpisce del nuovo lavoro di Fincher, prima ancora che possano manifestarsi al meglio le capacità attoriali dei suoi protagonisti, è l'ambiente sotteso alla storia, quasi degno di assurgere alla condizione di "attore de facto". La tensione visiva di quest ultimo poggia su di una palette cromatica di toni freddi: l'intera pellicola vira e si sviluppa principalmente attraverso sfumature di nero, grigio, bianco perla, tinte di blu chiaro e verdi pallidi; la luce, dal canto suo, contribuisce a rinforzare il sentimento di desolazione che accompagna lo spettatore per l'intera durata del film e allo stesso modo agisce l'utilizzo sapiente dei campi larghi, che spesso relegano i personaggi principali a minuscoli complementi dell'arredo suburbano, creando un suggestivo vuoto di potere all'interno delle immagini.
Il secondo elemento che fa vibrare di vita il funereo setting della pellicola, invece, è l'ubiquo occhio dell'opinione pubblica; Kevin Dunne, vittima prediletta dell'immancabile processo mediatico ai suoi danni, è infatti bloccato fra gli ingranaggi di una macchina spettacolare che, sull'onda dello sdegno nazionale, aspira con animo forcaiolo a sostituirsi alla giustizia ordinaria, senza badare all'attendibilità delle fonti o alla presunzione d'innocenza: conoscenti, vicini, tutti appaiono improvvisamente come potenziali nemici, sebbene prima della tragedia il protagonista ne avesse perfino ignorato l'esistenza.
Una delle primissime inquadrature della pellicola.

Due lati per ogni storia: il cast e la recitazione di "Gone Girl"
Procedendo prima secondo il punto di vista di Kevin e poi attraverso quello di Amy, la pellicola di David Fincher produce un chiasmo sia a livello emotivo che strutturale, creando una contrapposizione finale stabile e perfetta. L'equilibrio yin-yang di tutto il film, ad ogni modo, trova il suo fulcro utile nelle interpretazioni di Affleck e della Pike, giacché sono proprio i loro stili recitativi a caratterizzare rispettivamente la prima e la seconda parte dello spettacolo.
Le psicologie dei personaggi, tuttavia, si mostrano approfondite soltanto per ciò che riguarda alcuni tratti, ma tale impostazione, se da un lato ne diminuisce la poliedricità, dall'altro ne corrobora la tragicità. I pochi difetti o pregi su cui Fincher si concentra, per dipingere i protagonisti, divengono perciò totalizzanti, fungendo da sineddoche per l'intero sistema emotivo dei characters.
Inizialmente, grazie alla possanza fisica, i modi bruschi e l'acting muscolare di Affleck, "Gone Girl" appare dominato dalla presenza maschile, con tutti gli stereotipi, i pregi e i difetti che essa comporta.
La solidità di Kevin, per quanto non priva di punti ciechi e attaccata da più lati fin da subito (prima dalle indagini del detective Boney - interpretato da Kim Dickens, poi dalle fragilità della sorella gemella Margo - un'ottima e convincente Carrie Coon), affronta a testa bassa qualsiasi colpo o sferzata, senza cedimenti.
Una cadaverica Rosamund Pike, vicina a Ben Affleck, in un teaser poster di "Gone Girl".
Le vicende e l'azione di Affleck, tuttavia, vengono ridimensionate con potentissima e brutale efficacia dal vissuto del personaggio femminile, Amy, incarnato da una Rosamund Pike in stato di grazia. La donna, mediante uno stile recitativo sottile, cerebrale e stupefacente riesce a controbilanciare la mascolina presenza del compagno con efficienza chirurgica, ponendo a livello zero gli equilibri di forze nella geniale conclusione del film. Le due parti, dunque, risultano complementari, così come complementari dovrebbero dimostrarsi le intenzioni di due persone all'interno del quadro matrimoniale. La nota di demerito, se si parla di cast, la ottengono i comprimari: i personaggi secondari non funzionano altrettanto bene, e la cosa diviene palese se ci si concentra un secondo di più sulla figura di Desi Collings, insignificante e utile soltanto a fini di trama (interpretata da un Neil Patrick Harris completamente fuori ruolo). Kim Dickens (il detective Boney) e Carrie Coon (Margo Dunne), invece, meritano una menzione d'onore. L'ultima delle due, in particolare, funziona da ottimo ponte e traino fra le due parti della pellicola, introducendo la tematica del doppelganger in modo lieve e fornendo un parallelismo ulteriore tra la mascolinità di Dunne e l'irruenza tipicamente femminile della sua gemella.
Margo Dunne (interpretata da Carrie Coon) fronteggia il suo gemello Kevin (interpretato da Ben Affleck).


"Si chiama matrimonio": conclusioni
Tirando le somme, le carte sul tavolo propendono tutte per la piena promozione di "Gone Girl" a nuovo capolavoro di David Fincher; le reminiscenze oscure dei toni di "Zodiac", i fermenti e le turbe psicologiche di "Seven", la realtà castrante e piena di convenzioni che ha reso grande "Fight Club", tutto ciò che ha caratterizzato i lavori più importanti del regista americano si ritrova in "Gone Girl", sapientemente dosato e implementato da una nuova, dura lezione di vita. Fincher ci ha insegnato che a volte siamo i peggiori nemici di noi stessi, che ciò che non si vede è più temibile di un pericolo manifesto e che il potere logora sempre chi non ce l'ha. Questa volta, c'è solo una verità da fare nostra: gli esseri umani sono persone molto pericolose.
 

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