Peter Jackson si confronta per l'ultimissima volta
con la materia tolkeniana nel terzo episodio della saga de Lo Hobbit, prequel della
trilogia del Signore degli Anelli, iniziata nel dicembre del 2012. Alla luce
di questo La battaglia delle cinque armate, possiamo delineare una prima
analisi sulla legittimità cinematografica di questa nuova avventura triennale
del cineasta neozelandese.
Quando nel
2010 fu annunciato che la Warner/New Line e la Metro-Goldwyn Meyer avevano
messo in cantiere la realizzazione di una serie di film (inizialmente due)
tratti da Lo Hobbit di J. R. R.
Tolkien l'entusiasmo generale non tardò ad arrivare: la trilogia del
Signore degli Anelli rappresentava ancora (e continua a farlo tutt'ora)
un pilastro troppo importante per lo scorso decennio cinematografico, un'opera
fondamentale per il fantasy moderno che inevitabilmente e contro ogni
aspettativa ha indelebilmente dettato un nuovo modo di approcciarsi alla
materia e di realizzare con una precisione chirurgica ed una cura dei dettagli
maniacale un collage di elementi da sempre presenti nel genere, ma trattati
sotto una luce diversa, una luce in grado di illuminare un pubblico generalista
e non solo quello degli affezionati al genere o dei sostenitori sfegatati
dell'opera. La fiducia che anche questa nuova trilogia potesse rappresentare un
tale pilastro per il nuovo decennio degli anni Duemila era tanta e, se l'anima
geek di ognuno di noi aveva esultato strappandosi i capelli all'annuncio di Guillermo Del Toro come regista scelto dalla produzione, l'esultanza si trasformò
presto in euforia pura quando Guillermone lasciò in favore del vecchio Jackson.
Le aspettative furono rispettate quasi pienamente con Un viaggio inaspettato,
primo splendido episodio del 2012, ma il marchingegno iniziò leggermente a
scricchiolare con La desolazione di Smaug, secondo capitolo che, nell'era del
riscatto delle serialità televisiva, soffriva di mancata completezza, con un
finale letteralmente "troncato" che, se può andar bene per una serie
tv, non può trovare una giustificazione cinematografica: un qualcosa che
sicuramente Jackson non si sarebbe mai permesso di fare dieci anni fa e che è
sempre più utilizzata nei blockbuster americano moderno (Hunger Games su tutti).
Inoltre, una delle più grandi colpe imputate a questa nuova trilogia è un utilizzo
smisurato della computer-grafica, veramente eccessiva in alcun scene, molto più
simili ad un videogame che ad un film e completamente agli antipodi rispetto
all'approccio molto più artigianale visto nel Signore degli Anelli.
Infine, molti non riuscirono proprio ad accettare la scelta stilistica di
Jackson di realizzare questi nuovi film con la nuova tecnologia del HFR 3D in
48 fotogrammi al secondo, che renderebbe il movimento degli attori in scena
troppo veloce e quasi impossibile da seguire nelle scene d'azione, replicando
quasi l'effetto di un nastro accelerato.
Partiamo da
qui: ho visto il film in una sala IMAX HFR 3D dello Skyline Cinema di Sesto San
Giovanni (MI), mia prima esperienza con questo formato, e devo ammettere che la
qualità dell'immagine è un qualcosa di mai visto. Una nitidezza inarrivabile e
una percezione del movimento nelle scene d'azione che, sebbene possa provare la
vista di taluni spettatori, riesce a far immergere perfettamente nello schermo
che avvolge ogni singola poltrona della sala, anche grazie ad un 3D efficace e
giustificato come non mai. Si, è anche vero che il formato presenta i suoi
limiti in determinati momenti che sembrano usciti da Assasin's Creed (nel senso che, sembrano sequenze estrapolate da un
titolo d'avventura per una qualsiasi piattaforma videoludica). Con qualche anno
di sperimentazione in più, si potrebbero raggiungere risultati notevoli.
Mettendo da
parte il piano tecnico, La battaglia delle cinque armate è
un film dalla duplice natura: vorrebbe essere il capitolo conclusivo della saga
(recuperando quella completezza introvabile nell'episodio precedente) ma allo
stesso tempo fungere da ponte di collegamento per Il Signore degli Anelli,
conferendo a Lo Hobbit quel ruolo di vero e proprio prologo riconosciuto che
in tante dichiarazioni Peter Jackson aveva rivendicato per giustificare la
produzione di un'altra trilogia. Purtroppo, come prevedibile, il film non
riesce a raggiungere le vette del Ritorno del Re, l'altro inarrivabile
epilogo, anche perchè il racconto per bambini di Tolkien non ha la stessa
pregnanza e valenza letteraria dell'opera che scriverà in seguito e che lo
renderà famoso in tutto il mondo, ben più complessa e più bendisposta ad essere
rappresentata in chiave epica. Cosa c'è di buono ne La battaglia delle cinque armate?
Intrattiene, non c'è dubbio: abbiamo tutt'altro ritmo rispetto alla Desolazione
di Smaug, la battaglia del titolo occupa più di un'ora di film e
(nonostante la CGI che abbiamo ormai imparato ad accettare) offre dei buoni
momenti (ben lontani, però, dagli stupefacenti scontri della vecchia trilogia),
coreografati perfettamente e piacevoli da seguire. I guizzi registici sembrano
scarsi e l'impressione è che Jackson, da sempre guidato dal sacro fuoco della
creatività (non solo Il Signore degli Anelli, basti
pensare allo splendido Creature del cielo ed all'ancora
troppo sottovalutato King Kong), non abbia questa volta
la stessa energia e la stessa voglia di divertirsi con il genere. La gestione
dei tempi, inoltre, non è delle migliori: il film è il più breve tra tutti
quelli dedicati alle vicende della Terra di Mezzo, ma il brodo sembra
riscaldato oltre misura specialmente nella parte finale, dove Jackson fatica
quasi a chiudere con decisione una volta per tutte la storia. Anche Il
Ritorno del Re aveva una serie infinita di finali, ma il film non ne
soffriva in alcun modo (anzi, ne guadagnava). Quest'ultimo viaggio di PJ nella
Terra di Mezzo soffre terribilmente di una errata gestione dei tempi: appare
inspiegabile, infatti, come il possente Smaug sia liquidato nei primissimi
minuti, quando il cliffhanger finale dello scorso episodio aveva stuzzicato
così tanto l'interesse nel vedere come la vicenda (apparentemente catastrofica)
si sarebbe risolta. Il fatto che questi pochi minuti di Smaug siano in questo
film piuttosto che nel finale de La desolazione rivela ancora una
volta la natura prettamente commerciale dell'operazione Hobbit. Passando ai
personaggi, gli strenui oppositori della love story interrazziale tra Kili e Tauriel
avranno molto da ridire anche in questo caso: tutta la questione amorosa tra
l'elfa e il nano è prevalentemente inutile ai fini della trama e, se proprio doveva essere
realizzata, poteva essere gestita in modo migliore. Uno dei vincitori della
trilogia è senza dubbio il Thorin Scudodiquercia di Richard Armitage, un personaggio dai forti echi shakespeariani, qui
protagonista di un esame di coscienza che è una delle sequenza più riuscite del
film. Dispiace dire che la presenza di Gandalf non sia così importante come in
passato. Inoltre, anche il Bilbo del bravissimo Martin Freeman sembrava avere un potenziale molto maggiore nel
primo episodio, che purtroppo non è stato sfruttato a pieno e non riesce ad
avere una potenza espressiva paragonabile a quella che il nipote Frodo avrà nel
SDA.
A questo
punto, un quesito pare quasi spontaneamente prender forma: ha ancora senso
portare avanti il paragone tra le due trilogie cinematografiche? Se Lo
Hobbit ha davvero ragione di esistere solo come contraltare per i film
precedenti, la risposta è si; ma, contrariamente a quello che lo stesso Jackson
ha più volte dichiarato, mi piace pensare a questa nuova trilogia come una serie di film
indipendenti: sì, i vari riferimenti alle vicende de La compagnia dell'Anello
presenti nel finale possono anche emozionare e far palpitare il cuore dei
tolkeniani più sfegatati, ma se si riesce a prendere il tutto per quello che
veramente rappresenta, e cioè una pura e semplice operazione commerciale, anche
la trilogia de Lo Hobbit potrà essere vista sotto una luce diversa e riuscirà
a conquistare quell'identità e quella coerenza invisibile ai più ed in grado di
far godere a pieno l'opera anche a quei (pochi) profani che non hanno ancora
avuto l'inestimabile fortuna di vedere il capolavoro jacksoniano dello scorso
decennio.
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