Come i distributori italiani ci
hanno abituati da qualche anno a questa parte, dicembre non è solo il mese
delle festività, ma è anche il periodo in cui puntualmente l'ultimo film di Woody Allen arriva nelle sale. Dopo la
perla Blue Jasmine, che a febbraio portò all'Oscar Cate Blanchett (senza dubbio uno dei
lavori più riusciti dell'ultimo Allen), il regista newyorkese sforna quello che
è il suo 44esimo film, alla soglia dei fatidici 80 anni. Cosa aspettarsi dal
79enne Woody Allen dopo quasi 50 anni di carriera e 5 premi Oscar (uno per la
regia, uno per il miglior film e tre per la sceneggiatura)?
Parliamoci
chiaro: questo Magic in the Moonlight non è Blue Jasmine né cerca di
esserlo. Non ha la stessa profondità, gli stessi temi, la stessa compassata e
quasi invisibile recitazione (non che gli interpreti non facciano il loro
dovere, anzi!) né la stessa cattiveria di fondo che aveva caratterizzato la
storia di quella Jasmine tragicamente caduta in disgrazia e costretta a
ripartire da zero per rifarsi una vita. Quello che Allen racconta questa volta,
invece, è una vicenda leggera come una piuma che comunque racchiude un cuore di
ragionamento filosofico sul nichilismo e sull'arte di sapersi affidare alla
fede. Stanley Crawford (Colin Firth)
è un famoso illusionista britannico che nella Francia di fine anni '20 è
incaricato da un amico e collega di smascherare, come ha sempre abilmente
fatto, una giovane presunta medium (Emma
Stone) e rivelare la sua natura di scaltra truffatrice. La sfida per il
cinico e miscredente Stanley si rivelerà più impegnativa del previsto e metterà
a dura prova il suo famigerato materialismo. Lo stesso materialismo e lo stesso
cinismo che hanno sempre caratterizzato l'opera alleniana. Lo stesso crudele e
sarcastico sguardo disilluso che Allen utilizza nello sviscerare le vicende di
questa raffinata opera dalla natura quasi assimilabile a quella di una pièce
teatrale di fine Ottocento. Paradossalmente, però, è la magia, come suggerisce
il titolo, il tema principale del film: come poche volte nella sua carriera, Allen
lascia apparentemente posto per uno spiraglio di fiducia nell'esistenza di una
forza superiore e soprannaturale e, con la freschezza di un esordiente, gioca
con pregiudizi, credenze, illusioni e menzogne. Potrebbe sembrare un trattato
sulla fede e sulla consapevolezza di ognuno di noi nel perseverare
nell'integrità della nostra scelta morale e nel resistere strenuamente anche
davanti a tutto quello che, quotidianamente, può smentire in parte o totalmente
ciò in cui crediamo; d'altra parte, Magic in the Moonlight potrebbe
anche essere uno spensierato regalo a chi riesce a mettere da parte le proprie
convinzioni per provare ad aprirsi a un qualcosa di completamente diverso e
lontano da ciò in cui si crede. E se la sfera romantica è quasi in secondo
piano (come poche volte in Allen), o almeno relegata all'ultima parte del film,
il discorso sulla razionalità e sulla magia dell'inesplorato riveste completamente
di profondità e saggezza anche questa apparentemente leggera e brillante
commediola che decreta, comunque, che l'unica magia della quale ancora non si è
svelato il trucco è l'amore.
Il modello
sembra essere quello di quel genere di commedia che Stanley e la medium Sophie
avrebbero potuto veder proiettata in uno dei cinematografi della Costa Azzurra:
la tematica e la modalità di sviluppo che Allen sceglie di percorrere, così
come le personalità e i diversi caratteri dei protagonisti, sembrano ricalcare
un certo filone di pellicole che da Lubitsch
in poi hanno inaugurato una strada caratterizzata da quel tipico touch emulato e riprodotto negli anni
per rispettare i canoni ormai imposti della brillante commistione tra umorismo
ed erotismo e che Allen ha eletto a legge inderogabile per il suo cinema. Non
sceglie di mettere da parte questa "legge" nemmeno nel suo 44esimo
lavoro, ma, tutt'al più, carica di malizia le battute del suo Stanley (che è
indubbiamente l'alter ego del regista e che, ci scommetto, sarebbe stato
interpretato dallo stesso Allen, se fossimo negli anni '80) ed equilibra la
miscela insistendo sull'ingenuità della giovane e carina Sophie, che tanto
vuole apparire colta da attribuire erroneamente a Dickens parole che egli non
ha mai scritto. L'esperimento funziona anche e soprattutto per un casting che
più azzeccato non si può e che vede negli ottimi Colin Firth ed Emma Stone i
perfetti comprimari (anche solo fisiognomicamente) di una commedia ambientata
nel 1928.
A quasi ottant'anni, è assolutamente
ammirevole come Allen non cerchi mai di ripetere se stesso ma si diverta a
mettersi in gioco con qualcosa di nuovo e stimolante: chissà che non sia questo
il segreto per dar vita, ogni anno, da quasi cinquant'anni, ad un fresco e
straordinario momento cinematografico che oltre che per gli occhi sia una gioia
anche per la mente.
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