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venerdì 19 dicembre 2014

Lo Hobbit: La battaglia delle cinque armate, la recensione



Peter Jackson si confronta per l'ultimissima volta con la materia tolkeniana nel terzo episodio della saga de Lo Hobbit, prequel della trilogia del Signore degli Anelli, iniziata nel dicembre del 2012. Alla luce di questo La battaglia delle cinque armate, possiamo delineare una prima analisi sulla legittimità cinematografica di questa nuova avventura triennale del cineasta neozelandese.




Quando nel 2010 fu annunciato che la Warner/New Line e la Metro-Goldwyn Meyer avevano messo in cantiere la realizzazione di una serie di film (inizialmente due) tratti da Lo Hobbit di J. R. R. Tolkien l'entusiasmo generale non tardò ad arrivare: la trilogia del Signore degli Anelli rappresentava ancora (e continua a farlo tutt'ora) un pilastro troppo importante per lo scorso decennio cinematografico, un'opera fondamentale per il fantasy moderno che inevitabilmente e contro ogni aspettativa ha indelebilmente dettato un nuovo modo di approcciarsi alla materia e di realizzare con una precisione chirurgica ed una cura dei dettagli maniacale un collage di elementi da sempre presenti nel genere, ma trattati sotto una luce diversa, una luce in grado di illuminare un pubblico generalista e non solo quello degli affezionati al genere o dei sostenitori sfegatati dell'opera. La fiducia che anche questa nuova trilogia potesse rappresentare un tale pilastro per il nuovo decennio degli anni Duemila era tanta e, se l'anima geek di ognuno di noi aveva esultato strappandosi i capelli all'annuncio di Guillermo Del Toro come regista scelto dalla produzione, l'esultanza si trasformò presto in euforia pura quando Guillermone lasciò in favore del vecchio Jackson. Le aspettative furono rispettate quasi pienamente con Un viaggio inaspettato, primo splendido episodio del 2012, ma il marchingegno iniziò leggermente a scricchiolare con La desolazione di Smaug, secondo capitolo che, nell'era del riscatto delle serialità televisiva, soffriva di mancata completezza, con un finale letteralmente "troncato" che, se può andar bene per una serie tv, non può trovare una giustificazione cinematografica: un qualcosa che sicuramente Jackson non si sarebbe mai permesso di fare dieci anni fa e che è sempre più utilizzata nei blockbuster americano moderno (Hunger Games su tutti). Inoltre, una delle più grandi colpe imputate a questa nuova trilogia è un utilizzo smisurato della computer-grafica, veramente eccessiva in alcun scene, molto più simili ad un videogame che ad un film e completamente agli antipodi rispetto all'approccio molto più artigianale visto nel Signore degli Anelli. Infine, molti non riuscirono proprio ad accettare la scelta stilistica di Jackson di realizzare questi nuovi film con la nuova tecnologia del HFR 3D in 48 fotogrammi al secondo, che renderebbe il movimento degli attori in scena troppo veloce e quasi impossibile da seguire nelle scene d'azione, replicando quasi l'effetto di un nastro accelerato.

Partiamo da qui: ho visto il film in una sala IMAX HFR 3D dello Skyline Cinema di Sesto San Giovanni (MI), mia prima esperienza con questo formato, e devo ammettere che la qualità dell'immagine è un qualcosa di mai visto. Una nitidezza inarrivabile e una percezione del movimento nelle scene d'azione che, sebbene possa provare la vista di taluni spettatori, riesce a far immergere perfettamente nello schermo che avvolge ogni singola poltrona della sala, anche grazie ad un 3D efficace e giustificato come non mai. Si, è anche vero che il formato presenta i suoi limiti in determinati momenti che sembrano usciti da Assasin's Creed (nel senso che, sembrano sequenze estrapolate da un titolo d'avventura per una qualsiasi piattaforma videoludica). Con qualche anno di sperimentazione in più, si potrebbero raggiungere risultati notevoli. 

Mettendo da parte il piano tecnico, La battaglia delle cinque armate è un film dalla duplice natura: vorrebbe essere il capitolo conclusivo della saga (recuperando quella completezza introvabile nell'episodio precedente) ma allo stesso tempo fungere da ponte di collegamento per Il Signore degli Anelli, conferendo a Lo Hobbit quel ruolo di vero e proprio prologo riconosciuto che in tante dichiarazioni Peter Jackson aveva rivendicato per giustificare la produzione di un'altra trilogia. Purtroppo, come prevedibile, il film non riesce a raggiungere le vette del Ritorno del Re, l'altro inarrivabile epilogo, anche perchè il racconto per bambini di Tolkien non ha la stessa pregnanza e valenza letteraria dell'opera che scriverà in seguito e che lo renderà famoso in tutto il mondo, ben più complessa e più bendisposta ad essere rappresentata in chiave epica. Cosa c'è di buono ne La battaglia delle cinque armate? Intrattiene, non c'è dubbio: abbiamo tutt'altro ritmo rispetto alla Desolazione di Smaug, la battaglia del titolo occupa più di un'ora di film e (nonostante la CGI che abbiamo ormai imparato ad accettare) offre dei buoni momenti (ben lontani, però, dagli stupefacenti scontri della vecchia trilogia), coreografati perfettamente e piacevoli da seguire. I guizzi registici sembrano scarsi e l'impressione è che Jackson, da sempre guidato dal sacro fuoco della creatività (non solo Il Signore degli Anelli, basti pensare allo splendido Creature del cielo ed all'ancora troppo sottovalutato King Kong), non abbia questa volta la stessa energia e la stessa voglia di divertirsi con il genere. La gestione dei tempi, inoltre, non è delle migliori: il film è il più breve tra tutti quelli dedicati alle vicende della Terra di Mezzo, ma il brodo sembra riscaldato oltre misura specialmente nella parte finale, dove Jackson fatica quasi a chiudere con decisione una volta per tutte la storia. Anche Il Ritorno del Re aveva una serie infinita di finali, ma il film non ne soffriva in alcun modo (anzi, ne guadagnava). Quest'ultimo viaggio di PJ nella Terra di Mezzo soffre terribilmente di una errata gestione dei tempi: appare inspiegabile, infatti, come il possente Smaug sia liquidato nei primissimi minuti, quando il cliffhanger finale dello scorso episodio aveva stuzzicato così tanto l'interesse nel vedere come la vicenda (apparentemente catastrofica) si sarebbe risolta. Il fatto che questi pochi minuti di Smaug siano in questo film piuttosto che nel finale de La desolazione rivela ancora una volta la natura prettamente commerciale dell'operazione Hobbit. Passando ai personaggi, gli strenui oppositori della love story interrazziale tra Kili e Tauriel avranno molto da ridire anche in questo caso: tutta la questione amorosa tra l'elfa e il nano è prevalentemente inutile ai fini della trama e, se proprio doveva essere realizzata, poteva essere gestita in modo migliore. Uno dei vincitori della trilogia è senza dubbio il Thorin Scudodiquercia di Richard Armitage, un personaggio dai forti echi shakespeariani, qui protagonista di un esame di coscienza che è una delle sequenza più riuscite del film. Dispiace dire che la presenza di Gandalf non sia così importante come in passato. Inoltre, anche il Bilbo del bravissimo Martin Freeman sembrava avere un potenziale molto maggiore nel primo episodio, che purtroppo non è stato sfruttato a pieno e non riesce ad avere una potenza espressiva paragonabile a quella che il nipote Frodo avrà nel SDA

A questo punto, un quesito pare quasi spontaneamente prender forma: ha ancora senso portare avanti il paragone tra le due trilogie cinematografiche? Se Lo Hobbit ha davvero ragione di esistere solo come contraltare per i film precedenti, la risposta è si; ma, contrariamente a quello che lo stesso Jackson ha più volte dichiarato, mi piace pensare a questa nuova trilogia come una serie di film indipendenti: sì, i vari riferimenti alle vicende de La compagnia dell'Anello presenti nel finale possono anche emozionare e far palpitare il cuore dei tolkeniani più sfegatati, ma se si riesce a prendere il tutto per quello che veramente rappresenta, e cioè una pura e semplice operazione commerciale, anche la trilogia de Lo Hobbit potrà essere vista sotto una luce diversa e riuscirà a conquistare quell'identità e quella coerenza invisibile ai più ed in grado di far godere a pieno l'opera anche a quei (pochi) profani che non hanno ancora avuto l'inestimabile fortuna di vedere il capolavoro jacksoniano dello scorso decennio.  







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