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domenica 7 dicembre 2014

Magic in the Moonlight, la recensione


Come i distributori italiani ci hanno abituati da qualche anno a questa parte, dicembre non è solo il mese delle festività, ma è anche il periodo in cui puntualmente l'ultimo film di Woody Allen arriva nelle sale. Dopo la perla Blue Jasmine, che a febbraio portò all'Oscar Cate Blanchett (senza dubbio uno dei lavori più riusciti dell'ultimo Allen), il regista newyorkese sforna quello che è il suo 44esimo film, alla soglia dei fatidici 80 anni. Cosa aspettarsi dal 79enne Woody Allen dopo quasi 50 anni di carriera e 5 premi Oscar (uno per la regia, uno per il miglior film e tre per la sceneggiatura)?



Parliamoci chiaro: questo Magic in the Moonlight non è Blue Jasmine né cerca di esserlo. Non ha la stessa profondità, gli stessi temi, la stessa compassata e quasi invisibile recitazione (non che gli interpreti non facciano il loro dovere, anzi!) né la stessa cattiveria di fondo che aveva caratterizzato la storia di quella Jasmine tragicamente caduta in disgrazia e costretta a ripartire da zero per rifarsi una vita. Quello che Allen racconta questa volta, invece, è una vicenda leggera come una piuma che comunque racchiude un cuore di ragionamento filosofico sul nichilismo e sull'arte di sapersi affidare alla fede. Stanley Crawford (Colin Firth) è un famoso illusionista britannico che nella Francia di fine anni '20 è incaricato da un amico e collega di smascherare, come ha sempre abilmente fatto, una giovane presunta medium (Emma Stone) e rivelare la sua natura di scaltra truffatrice. La sfida per il cinico e miscredente Stanley si rivelerà più impegnativa del previsto e metterà a dura prova il suo famigerato materialismo. Lo stesso materialismo e lo stesso cinismo che hanno sempre caratterizzato l'opera alleniana. Lo stesso crudele e sarcastico sguardo disilluso che Allen utilizza nello sviscerare le vicende di questa raffinata opera dalla natura quasi assimilabile a quella di una pièce teatrale di fine Ottocento. Paradossalmente, però, è la magia, come suggerisce il titolo, il tema principale del film: come poche volte nella sua carriera, Allen lascia apparentemente posto per uno spiraglio di fiducia nell'esistenza di una forza superiore e soprannaturale e, con la freschezza di un esordiente, gioca con pregiudizi, credenze, illusioni e menzogne. Potrebbe sembrare un trattato sulla fede e sulla consapevolezza di ognuno di noi nel perseverare nell'integrità della nostra scelta morale e nel resistere strenuamente anche davanti a tutto quello che, quotidianamente, può smentire in parte o totalmente ciò in cui crediamo; d'altra parte, Magic in the Moonlight potrebbe anche essere uno spensierato regalo a chi riesce a mettere da parte le proprie convinzioni per provare ad aprirsi a un qualcosa di completamente diverso e lontano da ciò in cui si crede. E se la sfera romantica è quasi in secondo piano (come poche volte in Allen), o almeno relegata all'ultima parte del film, il discorso sulla razionalità e sulla magia dell'inesplorato riveste completamente di profondità e saggezza anche questa apparentemente leggera e brillante commediola che decreta, comunque, che l'unica magia della quale ancora non si è svelato il trucco è l'amore.

Il modello sembra essere quello di quel genere di commedia che Stanley e la medium Sophie avrebbero potuto veder proiettata in uno dei cinematografi della Costa Azzurra: la tematica e la modalità di sviluppo che Allen sceglie di percorrere, così come le personalità e i diversi caratteri dei protagonisti, sembrano ricalcare un certo filone di pellicole che da Lubitsch in poi hanno inaugurato una strada caratterizzata da quel tipico touch emulato e riprodotto negli anni per rispettare i canoni ormai imposti della brillante commistione tra umorismo ed erotismo e che Allen ha eletto a legge inderogabile per il suo cinema. Non sceglie di mettere da parte questa "legge" nemmeno nel suo 44esimo lavoro, ma, tutt'al più, carica di malizia le battute del suo Stanley (che è indubbiamente l'alter ego del regista e che, ci scommetto, sarebbe stato interpretato dallo stesso Allen, se fossimo negli anni '80) ed equilibra la miscela insistendo sull'ingenuità della giovane e carina Sophie, che tanto vuole apparire colta da attribuire erroneamente a Dickens parole che egli non ha mai scritto. L'esperimento funziona anche e soprattutto per un casting che più azzeccato non si può e che vede negli ottimi Colin Firth ed Emma Stone i perfetti comprimari (anche solo fisiognomicamente) di una commedia ambientata nel 1928.

A quasi ottant'anni, è assolutamente ammirevole come Allen non cerchi mai di ripetere se stesso ma si diverta a mettersi in gioco con qualcosa di nuovo e stimolante: chissà che non sia questo il segreto per dar vita, ogni anno, da quasi cinquant'anni, ad un fresco e straordinario momento cinematografico che oltre che per gli occhi sia una gioia anche per la mente. 


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